Le nude stanze della cultura

Di ludica epidermide si vestono i balocchi di una "Vetrina" scorta tanti anni fa. I barattoli inseguono geometrie parallele o sonorità morbide e convesse. La superficie si punteggia di piccoli cerchi che occhieggiano quasi fossero oblò di una nave immaginaria, pronta a salpare. Non esiste deriva, permane, invece, la sospensione fantastica della visione razionale e matura che si converte con gioia alle forme acquisite nell'infanzia, ove nulla significa in quanto tale ma è cagione di nuove elaborate storie e narrazioni fabulistiche. Ad ancorare al reale sovviene la scritta "ONT" che, parziale e trasversale, taglia centralmente la nostra visione convincendoci che quella vetrina esiste realmente. Così come esiste la libreria de "Le nude stanze della cultura", che ostende una rielaborazione sintetica, scarna e oggettivata nonché statica. Quasi quel mondo fosse stato inavvertitamente congelato in scansioni di segmenti strutturali e campiture di stesura piatta. Ad una lettura più attenta si nota che il pulsare della vita è altrove, oltre la balaustra. Ove, cioè, la linea si contorce irrequieta, esplora le diverse inclinazioni del pennello conferendo una "tridimensionalità impalpabile". Pare contraddittoria questa intuizione. Eppure la rete di segni non aggiunge pondus alla composizione ma acquisisce ugualmente la piena articolazione spaziale. La ragnatela segnica esplora lo spazio, lo costruisce con intelligenza ma ne mantiene la levitas originaria. Il tessuto di filato è strutturato ma al contempo, grazie alla tramatura larga, è trasparente. Al contrario, quando il ricordo si materializza in giocosa reminescenza, la linea rigorosa e coerente unitamente al cromo, selettivo e piatto, riconoscono alla rappresentazione una solidità puramente bidimensionale. Nella produzione di Natali permane questa ingannevole polarità. E forse anche in questo sta il gioco: quando crediamo di scorgere una figurazione realistica, pur nella sintetica resa, già allora non siamo più nel reale ma nel mnemonico e ironico microcosmo di Silvio. Che ci esplicita l'abbaglio col suo cavallo di Troia in "Anch'io fui là". L'intento che sostiene entrambi gli espedienti tecnici è narrativo, come si evince anche dalla lettura dei titoli attribuiti ad ogni singola opera. L'incipit si può generare dalla rielaborazione di un fatto storico così come dal nostalgico e pensoso ripiegamento sulla sfera personale e affettiva. I referenti, se sussistono, sono per affinità ludica nel tubismo di Léger e stilistica, ove la linea nera diviene demarcazione semantica, in Nespolo e Adami. Come questi ultimi l'artista crede nelle potenzialità del racconto figurato. Quando la mano, invece, prende pieno dominio e autonoma iniziativa, la linea diviene quasi strumento di scrittura automatica, flusso incontenibile e insaziabile sonda di monitoraggio visivo. Ecco allora la dialettica rispondenza di segno e campitura, di invenzione e di reale. Cosa unifica tecnicamente le differenti espressioni? La linea. Quando si entra nello spazio bidimensionale e della fabula la linea si ispessisce, si fa contorno, e garantisce lo stacco da un oggetto che si sovrappone all'altro, come nella giustapposizione della figurazione medievale, conferendo autonomia di significato e di struttura; quando invece si inserisce nel tridimensionale groviglio umano allora si fa sottile e nervosa, quasi ribelle. L'uomo è infatti rappresentato sempre da un segno intricato e inesausto, quasi non bastasse mai a contenerne tutta la problematicità e complicatezza. Gli oggetti, le architetture, gli spazi fisici possono riposare in tranquille sintesi formali. Se volessimo giocare col mito, come fa Silvio, potremmo concludere che lui ci invita nel labirinto dei suoi pensieri e delle sue fantasie e ci fornisce il filo conduttore e narrativo delle sue peregrinazioni figurative. Sta a noi decidere se ritrovare la strada del ritorno o permetterci piacevolmente di perderci.

Elisabetta Pozzetti